La fotografia può rompere il silenzio. La prova incontrovertibile risiede nella storia di un bambino di nove anni che si chiama Alex Granini e vive a Valbrona, in provincia di Como. All’età di tre anni gli è stata diagnosticata una malattia genetica rarissima: il disordine reticolare della pigmentazione legata al cromosoma X. Inizialmente nessuno riusciva a capire di cosa si trattasse fino a quando la risposta è arrivata grazie ad un consulto online con Andrew Zinn, un genetista di Dallas che studiava da più di vent’anni, la X-Linked Reticulate Pigmentary Disorder with Sistematic Manifestations (XLPDR), malattia genetica ad andamento cronico ed altamente invalidante. I suoi segni caratteristici? La perdita progressiva della vista causata dalla distrofia corneale, ulcere presenti sulla cornea che rendono l’occhio ultrasensibile alla luce solare, macchie sulla pelle provocate dalla pigmentazione non uniforme, e mancanza di lacrimazione, sudorazione e salivazione dovute ad un malfunzionamento delle ghiandole sudoripare che provocano il deficit di termoregolazione. Al mondo esisterebbero finora solo 14 persone, in maggioranza maschi, e il piccolo Alex sarebbe uno di questi. Nonostante i medici abbiano scoperto la mutazione genetica responsabile della malattia, tuttavia resta ancora senza cura. “Quando ad una famiglia viene diagnosticata una malattia rara, non cambia la vita solo del malato, ma dell’intera famiglia” racconta la mamma Patrizia che insieme al marito Enea non hanno mai abbassato la guardia. “Sono una donna molto testarda, determinata e orgogliosa, il mio essere così mi ha permesso di non arrendermi con Alex, di salvargli la vita a chi lo dava già per morto” aggiunge. Non a caso è la sua ostinazione per la vita del figlio che l’ha portata dopo un lungo “pellegrinaggio medico” a conoscere la dottoressa Irene Bruno dell’Ospedale Infantile Burlo Garofolo di Trieste la quale si è fatta trasportare dalla storia di Alex e da lì non l’ha mai abbandonata. La sua équipe composta da infermieri, chirurghi e anestesisti si occupa ormai da anni, costantemente, del caso clinico alleviando i sintomi attraverso operazioni chirurgiche, pomate e oli per la pelle, colliri e gel per gli occhi e antibiotici per le infezioni respiratorie. “Alex è un bambino molto intelligente ma sta crescendo, si sta rendendo di avere un corpo uguale agli altri ma di essere diverso – spiega Patrizia – sta prendendo coscienza dei suoi limiti, non poter correre, giocare come gli altri bambini, vivere in casa sognando di stare all’aria aperta, e in questo momento è molto arrabbiato. Alex mi ha insegnato che possiamo decidere dove andare, cosa fare, se mangiare oppure bere, ma la vita, quella non si può controllare, è una scatola chiusa non sai mai cosa ci potrai trovare dentro”. In questa scatola chiusa non entra la luce, né artificiale né solare, perché è diventata un elemento ostile. Ma l’ottimismo e la fiducia non devono venire a mancare. “Ama la vita ed è curioso di tutto, fa tante domande, è allegro, socievole, dolce e sensibile, ma anche molto orgoglioso e determinato”. Ad accompagnarlo in questa rincorsa per la vita è un’intera famiglia che con tante difficoltà non si è mai tirata indietro. Così la storia di Alex è diventata un progetto del fotografo Luca Catalano Gonzaga dal titolo ‘One of a kind’ con l’obiettivo di raccontare il dramma delle malattie rare sconfiggere l’isolamento dei malati e dei loro familiari. (testo a cura di Sebastiano Caputo).
Categoria: storie
The Devil’s gold
E’ dentro il ventre del vulcano Ijen Kawah, nella parte orientale di Giava, in Indonesia che i minatori si calano alla ricerca dell’oro del diavolo, come da sempre viene chiamato lo zolfo. Trecento uomini che ogni giorno, dal campo base che si trova alle pendici della montagna, raggiungono a piedi la sommità del vulcano. Si inerpicano per tre chilometri per poi iniziare la discesa nel bordo del cratere dove si trovano i cristalli di zolfo. Novecento metri in discesa verso l”inferno, sfidando il calore insopportabile, la scarsa areazione e il buio, senza alcuna protezione. Il gas sulfureo afferra la gola, brucia i polmoni, fa lacrimare gli occhi. Pochi hanno in dotazione vecchie maschere antigas: molti preferiscono lavorare di notte perché il caldo è più tollerabile, sulla bocca uno straccio bagnato nell’illusione di proteggersi dal fumo e respirare meglio. Un lavoro durissimo che finirà presto; qui la speranza di vita non supera i 50 anni. Le lastre di zolfo vengono rotte con l’aiuto di aste di metallo e poi caricate in cesti di vimini che in genere pesano 70-90 kg. Inizia così il viaggio a ritroso del raccoglitore di zolfo del XXI secolo che arranca sotto il peso, in equilibrio precario, verso la bocca del vulcano, un peso devastante che modifica la spina dorsale, piega le gambe, crea ulcere sulle spalle. Qui consegnerà le lastre per la purificazione processo che avviene di notte e dura 14 ore. Tutto ciò per 5 euro al giorno, 10 se è in grado di ripercorrere il tragitto due volte. (testo a cura di Luca Catalano Gonzaga).
The dark side of India
Si chiamano “Dalit” e sono 160 milioni in tutta l’India. Sono membri della casta più bassa del sistema sociale e religioso induista, catapultati dalla tradizione locale nei luoghi più infimi del Paese a svolgere i lavori più degradanti e odiosi. Quella dei Dalit viene considerata una casta al pari delle altre ma la realtà racconta tutt’altro. Del resto è proprio l’emarginazione a condannare queste persone ad accettare la miseria. A Varanasi, città indiana che si affaccia sulla riva del Gange, ci sono delle fornaci in cui questi nuovi schiavi colpevoli di appartenere alla “casta degli impuri”, producono e trasportano mattoni sulla schiena o sul capo per una cifra economica utile solo alla sopravvivenza. Donne e bambini, spesso minori, lavorano incessantemente per ore e ore, avvolti nella polveri altamente nocive, sotto il sole che soffoca tutta l’Asia meridionale. Manca l’aria, tra le pietre di Varanasi, ma soprattutto mancano le tutele sanitarie, d’igiene e di sicurezza. Tutti sembrano sapere, eppure sono in pochi quelli che combattono contro questa ingiustizia. “The dark side of India” è un fotoreportage di Luca Catalano Gonzaga,finanziato dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti in collaborazione con l’ONG PVCHR, che vuole raccontare la schiavitù dei “Dalit” in quella che viene considerata la più popolosa democrazia del mondo: l’India. (testo di Sebastiano Caputo).
Rwanda: the faces of a thousand hills
“Rwanda, i Volti delle Mille Colline” è un viaggio nell’umano, colto attraverso il gesto di una mano, la profondità di uno sguardo che annulla lo scorrere del tempo, l’alternarsi continuo di ombre e luci che riflettono i chiaroscuri dell’animo. Ogni fotografia è l’espressione emotiva di un pensiero taciuto; è l’idea che si possa procedere oltre i confini di un’immagine impressa su carta; è la possibilità di un incontro con una vita che si esprime nell’immobilità di un movimento tracciato per sempre. I volti che scorrono di fronte ai nostri occhi raccontano il cammino di una donna, la fatica quotidiana, il sudore dei campi, il lavoro della terra, il pensiero di un bambino, la vita di ogni giorno. Il fotografo Luca Catalano Gonzaga, ci offre il punto di vista da dietro l’obiettivo: è regista, è artista, lascia però a ciascun spettatore la possibilità di non fermarsi all’immediato, bensì di divenire osservatore partecipe di un’immagine di Africa, profonda e intensa.
Immigrant clergy
In Italy, where immigration is a recent phenomenon, there are about 5 million legal immigrants out of a population of 60 million. Among these immigrants are those who have decided to dedicate their lives to their faith. These immigrants are the priests who fulfill their roles in Italian churches since the crisis of religious vocation in the West that has reduced the number of people choosing to become priests. The objective of “Immigrant Clergy” is to capture through photo-reportage the new face of the Church which is changing due to the presence of a growing number of priests, monks and nuns working in Itailan diocese.
The “Angels of the sky”
Li chiamano “Angeli del cielo” perché si calano dall’alto per portare soccorso immediato dopo le operazioni di salvataggio in mare. A bordo di elicotteri o di velivoli gli uomini e le donne del 2° Nucleo Aereo della Guardia Costiera Italiana di Catania svolgono un servizio di allarme chiamato “Search and rescue”. L’obiettivo è quello di fornire un’assistenza medica d’urgenza a quei migranti dispersi in acqua che il più delle volte hanno bisogno di cure immediate. Questa pratica molto delicata e rischiosa necessita di una di una preparazione rigorosa e disciplinata del personale. Le fotografie di Luca Catalano Gonzaga mostrano le fasi di addestramento e di manutenzione dei velivoli in dotazione per garantire interventi efficaci e tempestivi in attesa della prossima chiamata dalle acque mediterranee. (testo a cura di Sebastiano Caputo).
Drops in the Mediterranean Sea
L’immigrazione non è un viaggio in prima classe ma una fuga necessaria dalla povertà o dalla guerra. Sguardi persi nel vuoto, corpi esausti, voci spezzate. Le storie individuali di chi decide di gettarsi nel Mar Mediterraneo sono scolpite sui volti dei 1.250 migranti che nelle prime settimane del mese di giugno del 2017 sono state portate in salvo dall’equipaggio della Guardia Costiera Italiana in cooperazione con quella svedese nel quadro di una missione europea. Tutti provengono dall’Africa Sub-sahariana (Burkina Faso, Mali, Sierra Leone, Nigeria, Sudan, Repubblica del Congo, Somalia, Costa d’Avorio), alcuni viaggiano da giorni, altri da mesi. C’è chi addirittura ci ha messo più di un anno a raggiungere l’Europa. Gli avvistamenti avvengono a poche miglia dalle coste libiche, poi inizia la fase dei soccorsi, di notte, al buio, o di giorno, sotto il sole cocente. I gommoni vengono abbordati, i migranti trasportati sulla nave “Ubaldo Diciotti” e disposti sulla plancia di poppa, avvolti dalle coperte termiche. Gli operatori assicurano le prime cure mediche, in primis a donne e bambini, distribuiscono le bottiglie d’acqua ai più assetati, tranquillizzano quelli più impauriti. A pochi metri ci sono anche piccole imbarcazioni con a bordo uomini che osservano discretamente le operazioni di salvataggio. Potrebbero essere gli scafisti travestiti da pescatori. Il più delle volte vengono intercettati per dei controlli. Ogni informazione può essere utile per fermare questo traffico globale di uomini, donne e bambini che ha trasformato il Mediterraneo in un vero e proprio cimitero. Le fotografie di Luca Catalano Gonzaga sono state scattate nel giugno del 2017 a bordo della nave “Ubaldo Diciotti” e raccolte nel progetto “Sea gives, sea takes” raccontano l’epopea collettiva dei migranti e la straordinaria umanità e umiltà dell’equipaggio della Guardia Costiera Italiana (testo a cura di Sebastiano Caputo).
Syria: portrait of a generation at war
La guerra ha la capacità e la forza di trasformare l’approccio spirituale che solitamente ogni essere umano intrattiene con l’esistenza. Provate a chiedere ad un bambino di Aleppo, Homs o Damasco cosa vuole fare da grande. Risponderà entusiasta: “il soldato!”. Da quelle parti non esistono le “popstar” perché gli eroi sono diventati i generali dell’esercito premiati da medaglie al valore, feriti o morti sul fronte. Ecco che improvvisamente un’intera generazione, giovani tra i 18 e 25 anni, si è ritrovata a condurre una vita che molti non avevano nemmeno immaginato. Alcuni di loro si sono lanciati in prima linea a combattere con le armi, altri invece hanno scelto di stare nelle retrovie, gli ospedali di guerra, per riparare ogni forma di trauma. Ritratto di una generazione in guerra è il reportage fotografico di Luca Catalano Gonzaga che racconta la storia di giovani infermiere donne che medicano giovani soldati uomini che a loro volta si sono sacrificati per difendere il loro avvenire. Mano nella mano, uniti da un solo obiettivo: liberare la Siria dall’invasione straniera. In questa sequenza vengono immortalati ragazzi ricoverati presso l’ospedale Youssef Al Asma di Damasco, in condizioni traumatiche, che tuttavia mostrano con orgoglio sui loro smartphone immagini scattate direttamente nelle zone calde del conflitto, rigorosamente in uniforme militare. Dall’altra parte, le infermiere vestite col camice, si mettono in posa, timidamente, pochi istanti prima delle operazioni chirurgiche. (testo a cura di Sebastiano Caputo).
Life under the rubble
Crocevia tra Europa, Asia e Africa, civiltà millenaria e mediterranea, la Siria è tornata al centro del dibattito internazionale a causa di una guerra che si protrae da più di cinque anni. Una crisi cominciata nella primavera del 2011, quando si registrarono le prime manifestazioni pacifiche contro l’attuale presidente Bashar al Assad, che col trascorrere dei mesi è diventata una vera e propria rivolta armata che ha destabilizzato un’intero Paese a causa di una contrapposizione interna allargatasi a nazioni straniere e gruppi terroristici regionali. In Siria si viveva in pace, poi ha prevalso la guerra, e solo con la guerra, purtroppo, si può ritornare ad un’epoca di pace. “Life under the rubble” è il reportage fotografico di Luca Catalano Gonzaga che vuole descrivere, impietosamente, le ferite, le angosce, le speranze di un popolo martoriato da lunghi, infiniti, combattimenti. C’è chi prega, chi prova a vivere dignitosamente, chi combatte, chi soffre, chi sfiora la morte con un dito, chi invece si abbandona totalmente per servire il prossimo. La guerra è brutale ma è anche rigenerativa. Piangere sui cadaveri non serve, quello che conta, leggendo sul volto dei siriani, è lottare per il futuro. (testo a cura di Sebastiano Caputo).
Artisanal gold mining
Indonesia è al contempo estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici ed è anche il terzo emettitore di gas serra, se viene preso in considerazione il processo di deforestazione della foresta fluviale del Borneo. (Report Unicef UK 2015 http://www.unicef.org.uk/Latest/Publications/Climate-change-violence-and-young-people/). La terra che oggi i cercatori di oro sventrano alla ricerca del più prezioso dei metalli, un tempo era coperta dal una rigogliosa foresta. Nei villaggi di Tumbang Tariak e Tumbang Miwan, nel Borneo indonesiano, sono in molti a sfidare la legge – estrarre oro è considerata un’attività illegale – e la salute. Le leggi governative si aggirano corrompendo i pubblici ufficiali che dovrebbero a livello locale controllare. La ricerca del proprio piccolo Eldorado è obiettivo di molte famiglie da queste parti: bastano pochi anni di duro lavoro per guadagnare quel tanto che serve ad andarsene da questo luogo desolato di fango e veleni, comprare casa in città e ricominciare un’altra vita. Solo nel distretto di Gulung ci sono 10.000 cercatori d’oro. I minatori informali – come vengono chiamati – non dispongono di tecnologie sofisticate e per estrarre l’oro utilizzano il mercurio mischiando l’acqua con il minerale che contiene l’oro per formare un amalgama. Subito dopo la miscela viene riscaldata per rimuovere il mercurio per evaporazione mentre l’acqua contaminata viene scaricata nel fiume Kahayan che attraversa i villaggi circostanti. L’intera falda freatica è contaminata. Si beve acqua al mercurio, si irrigano i campi avvelenando la catena alimentare. Di mercurio si muore. Eppure la ricerca dell’oro non si arresta neanche di fronte alle ferite inferte alla natura che qui sembra ormai un lontano ricordo. Non ci sono alberi, ormai eradicati per scavare senza pietà la terra, resa ormai perenne acquitrino dal gettito delle pompe d’acqua che i minatori usano per portare i detriti in superficie. Ed è questa la fase più delicata e rischiosa. Solo quest’anno sono morti nel distretto di Gunung 24 persone sommerse dal fango perché le pareti non hanno retto e sono improvvisamente crollate. Dopo la selezione dei detriti e l’uso sconsiderato del mercurio l’oro viene separato dagli altri materiali, pesato e valutato. (testo di Luca Catalano Gonzaga).