The great fish robbery

La domanda inarrestabile della Cina, che spinge i prezzi della farina di pesce a livelli record, ha indotto le aziende a puntare lo sguardo sull’Africa occidentale, ricca fonte di approvvigionamento.

Si costruiscono nuove fabbriche sulla costa della Mauritania e gli interessi commerciali globali minacciano la sopravvivenza dei pescatori locali.

Secondo il recente rapporto di Greenpeace “Pesce sprecato”, si stanno perdendo centinaia di migliaia di tonnellate di pesce idoneo all’alimentazione umana per soddisfare l’industria mangimistica, con un impatto potenziale su oltre 40 milioni di consumatori africani.

Pescherecci provenienti da Asia, Europa e Africa occidentale continuano a fare incursioni illegali nelle acque riservate ai locali, violando le regolamentazioni sulla pesca. Il giornale Frontiers in Marine Science ha pubblicato un rapporto secondo il quale la pesca illegale, non segnalata e non regolamentata, ha un costo di 2,3 miliardi di dollari all’anno per le economie dell’Africa occidentale.

Secondo le più recenti stime della Fao, la maggior parte degli stock dei piccoli pelagici al largo dell’Africa occidentale è sovra-sfruttato, mentre negli ultimi 25 anni le catture totali sono più che duplicate.

Nonostante questo, in Mauritania, tra il 2014 e il 2018, le esportazioni di farina e olio di pesce sono raddoppiate, rendendo questo Paese il maggiore esportatore dell’intera regione, seguito dal Marocco.

Inoltre, il fenomeno dei cambiamenti climatici e il conseguente riscaldamento delle acque sta provocando uno spostamento del flusso dei pesci. I dati satellitari indicano che le acque al largo della Mauritania si stanno riscaldando più velocemente di qualsiasi altra parte della cintura equatoriale, chiamata zona di convergenza tropicale.

I pescatori della tradizione, oggi, devono dunque fare i conti con i nuovi predatori industriali e con i cambiamenti climatici.

“La vita è dura per chiunque lavori qui” – racconta Sily Bakary mentre si imbarca dalla spiaggia di Nouakchott con un centinaio di altri pescatori pronti a portare a terra il pesce scaricato da una piroga -, “ma siamo pescatori e questa è la nostra vita, dove altro potremmo andare?”.

Bloody Batteries

Terra di conquista del nuovo colonialismo è la Repubblica Democratica del Congo (DRC), dove il governatore della provincia del Katanga ha messo a disposizione degli investitori stranieri 14 milioni di ettari di terreni. Nella regione del Katanga viene estratta più della metà del cobalto ricavato al mondo. Il Cobalto insieme ad altri minerali strategici quali il litio ed il nichel, sono presenti nelle nuove batterie ricaricabili agli ioni di litio che alimentano le auto elettriche di nuova generazione, ma anche i nostri smartphone, i tablet e i computer che usiamo tutti i giorni. L’industria mineraria del cobalto utilizza macchinari pesanti ed è controllata principalmente da società straniere. Il recente rapporto “Cobalt blues” del “Centre for Research on Multinational Corporations” (SOMO), https://www.somo.nl/cobalt-blues/ descrive come le compagnie minerarie estere che estraggono il cobalto siano coinvolte nell’accaparramento di terre, nell’annullamento dei mezzi di sostentamento della comunità locale e nelle violazioni dei diritti dei lavoratori. L’industria causa anche notevoli danni ambientali, tra cui la perdita di biodiversità e la deforestazione, l’inquinamento atmosferico e la contaminazione dell’acqua con elementi tossici e radioattivi, a scapito della popolazione locale. Uomini, donne, ragazze e circa 40.000 bambini nella regione del Katanga meridionale, sono costretti a vivere e lavorare nelle cosiddette miniere “artigianali” in condizioni pericolose e insalubri. Il reportage fotografico è stato realizzato presso Kanina e Kabamba, remote comunità minerarie alla periferia di Kolwezi, nella ricchissima Provincia del Lualaba, ex Katanga. Qui sopravvive un modello di sfruttamento economico e sociale che produce condizioni di disuguaglianza e sottosviluppo.

Witness Image ringrazia la ONG locale, Bon Pasteur, affiliata con la Fondazione Internazionale Buon Pastore ONLUS, per il supporto logistico, senza il quale, questo reportage fotografico non sarebbe stato possibile realizzare.(testo a cura di Luca Catalano Gonzaga).

The ugly face of beauty

L’India è uno dei più grandi produttori mondiali della Mica, un minerale cristallino, argenteo. Un minerale estremamente versatile ed essenziale per l’industria cosmetica, che dona brillantezza a ombretti, fondotinta e rossetti. Un minerale dall’inestimabile valore per le compagnie operanti nei settori della cosmetica, in grado di alimentare un giro d’affari da miliardi di euro in un mercato che vede fra i protagonisti Cina, India, Stati Uniti e Unione Europea. Il lucrativo business della Mica cela però un vergognoso segreto: l’utilizzo massiccio di lavoro minorile e delle donne per estrarre il minerale dalle pericolose miniere. Attualmente l’India produce il 60 per cento della Mica mondiale, la maggior parte della quale proviene dal Jharkhand.  Ma dal 1980, quando entrò in vigore una legge per la tutela delle foreste, quasi tutte le miniere legali sono state chiuse, spingendo l’industria nella clandestinità. Oggi, l’estrazione coinvolge ventimila minatori abusivi, per lo più contadini analfabeti e senza terra, alla mercé di agenti, intermediari ed esportatori che gestiscono una complessa rete di abusi e lavoro forzato. L’Organizzazione Mondiale Per Il Lavoro (ILO) ha classificato il lavoro nelle miniere come una delle forme peggiori di lavoro minorile. E le condizioni nei pozzi dove si estrae la Mica non fanno eccezione. Le miniere, infatti, sono luoghi molto pericolosi: crolli e altri incidenti, legati all’uso di strumenti pericolosi, quali l’utilizzo della dinamite, sono molto frequenti. Durante il processo di estrazione della Mica, donne e bambini respirano grandi quantità di polvere di silicio che si depositano nei polmoni, esponendoli al rischio di sviluppare la silicosi. Una malattia dei polmoni potenzialmente letale. La legge indiana vieta ai minori sotto i 18 anni di lavorare nelle miniere e in altre attività ad alto rischio, ma molte famiglie che vivono in estrema povertà dipendono sui bambini per contribuire ad incrementare il magro reddito familiare, che è di 200 rupie in media, l’equivalente di 2 Euro al giorno. (testo a cura di Muriel de Meo).

The nuclear grave of india

Distorsioni dell’apparato scheletrico, cranio parzialmente formato, testa gonfia, occhi o orecchie mancanti, malattie del sangue, dita fuse tra loro, danni al cervello. La maggior parte dei bambini dei villaggi intorno a Jadugoda, città dello Stato indiano orientale del Jharkhand, soffre di simili deformità fisiche. Da anni gli ambientalisti riconducono queste condizioni ai rifiuti tossici prodotti dalla miniera d’uranio che si trova nel villaggio. Entro il 2032, l’India spera di generare 63 gigawatt di energia nucleare che taglierebbero la sua dipendenza energetica e la metterebbero sulla strada del progresso. Ma il progresso ha un prezzo. Jadugoda, nello stato orientale del Jharkhand, è quel prezzo. Questa piccola città ospita il più pregiato minerale di uranio del mondo, il diuranato di magnesio. Questo letale elemento necessario per i reattori del paese sta lentamente sterminando un’intera generazione della popolazione che vive nella zona. Le persone di Jadugoda sono esposte alla radioattività in diversi modi: le operazioni di estrazione e macinazione dell’uranio producono polveri e rilasciano gas radon, entrambi i quali sono inalati dai minatori e causano irradiazione interna. Il minerale di uranio viene trasportato su camion scoperti su strade sconnesse, causando la caduta e lo sbarco di detriti radioattivi. Gli sterili della miniera mantengono un’alta percentuale della radiazione originaria e vengono scaricati in stagni non rivestiti e scoperti, che emettono radon gas e radiazioni gamma. I villaggi che si trovano in prossimità dei bacini di decantazione sono i più colpiti. Durante la stagione secca, la polvere degli sterili soffia attraverso questi villaggi. Durante le piogge monsoniche, i rifiuti radioattivi si riversano nelle insenature e nei fiumi circostanti, causando ulteriori radiazioni interne mentre gli abitanti del villaggio usano l’acqua contaminata per lavarsi e bere e anche utilizzare gli stagni nelle vicinanze per la pesca. Le scorie nucleari scaricate possono rimanere radioattive e pericolose per milioni di anni. Secondo uno studio condotto da un’equipe di medici del gruppo Indiani per la Pace e lo Sviluppo (IDPD), c’è stato un aumento significativo dei casi di deformità congenite tra i bambini, aumento della sterilità e numero elevato di morti a causa di cancro. Anche la ridotta aspettativa di vita tra le persone che vivono vicino alle miniere è stata documentata, il 68,33 per cento delle persone muore prima dei 62 anni. (testo a cura di Muriel de Meo).

 

The story of Elly (on going)

Eleonora, anni 30 e una testarda voglia di vivere. Una vita diversa, rara, per la scienza unica. Una vita difficile, dove Eleonora ha scelto di trasformare in opportunità, in cui la lentezza di passi stanchi le ha permesso di cogliere i particolari, di accogliere la meraviglia delle piccole cose. Ed è dai particolari che bisogna partire se si pensa alla sua storia clinica, perchè nulla in lei segue il filo di ciò che può esser definito certo, conosciuto e incontrovertibile. Una cartella clinica complessa, che pesa e riporta in calce le diagnosi di Angioedema Ereditario e Sindrome di Ehlers Danlos. Una cartella clinica che negli anni si riempie e si complica, a volte persino si contraddice. Comorbidità che esistono e coesistono, sindromi minori. Malattie e Rarità a cui Eleonora si ribella, che lotta instancabilmente, a cui non accetta di piegarsi e che sceglie di mostrare al mondo perchè mostrarsi al mondo è vivere per lei. Un mondo che spesso l’ha tradita, isolata, umiliata ma a cui lei non smette di credere. Scrive Eleonora, da anni ormai, una vita semplice la sua ma che trabocca di amore, e un credo forte, inscalfibile, a volte severo ma sincero. Animata dal desiderio di donare al mondo occhi nuovi, e spinta dalla convinzione che è diritto e dovere di ciascun essere umano esistere apre le porte del suo mondo, sceglie di mostrare il lato intimo e vero del suo vivere con la sola speranza di abbattere quel muro di silenzio e paura che allontana e divide il mondo da chi diverso. (testo a cura di Eleonora Caputo).

Life at the crossroads

Tra la Russia e la Cina, la popolazione tagica è a un bivio in cerca di futuro e sviluppo. Il Tagikistan è, in effetti, il più povero degli stati, nato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Continuamente alla ricerca di una sopravvivenza economica, il paese è pesantemente colpito dalla disoccupazione e dalla povertà. Una cultura che è nata all’interno della Russia e che si sta ora spostando verso l’influenza della Cina. Oggi, infatti, tutti i trasporti di merci, dal cibo ai vestiti, alle attrezzature sono gestiti e portati dalla Cina. Tuttavia molti lavoratori continuano a emigrare in Russia per trovare lavoro. L’antica Via della Seta è diventata un percorso per fornire sostegno alle popolazioni remote dei Pamir. Rannicchiata in alto ad altitudini inimmaginabili, la popolazione resiste e vive in condizioni limite. La vita è scandita dalla coltivazione della terra per generare pochi prodotti e all’allevamento di pecore per fornire carne e lana. Anche lo yak è una parte importante della loro vita, poiché ben si adatta alle alte quote e fornisce un mezzo di trasporto fondamentale, oltre che per la sua carne e il suo mantello. La catena montuosa del Pamir, costituisce la più grande catena montuosa dell’Asia centrale e del mondo. Conosciuto come “Il Tetto del mondo”, non è solo la regione più alta del Tagikistan, ma anche una delle regioni più alte del mondo, paragonabile alle altezze delle montagne del Tibet. I Pamir in quanto tali si riferiscono alla catena che si estende dal Tagikistan all’Afghanistan e alla Cina. Il confine tra Tagikistan e Afghanistan è una stretta striscia di terra che si protende per poi incontrare il confine con la Cina. Questa terra fa parte di quello che potrebbe essere definito l’ultimo angolo del mondo che non è stato esplorato in profondità. La lenta rivoluzione industriale e tecnologica ha costretto gli abitanti ad essere totalmente immersi in questa vasta area rurale, agricola e montagnosa, sviluppando così un’identità consolidata di molti forti valori tribali e una relazione spirituale, quasi sacra, con l’ambiente, dove la terra e il tempo diventano due elementi essenziali. (Testo a cura di Muriel de Meo).

Sweat and Dust

Il terremoto del Nepal del 25 aprile 2015 è stato un violento evento sismico di magnitudo locale 7,8 con epicentro a circa 34 km a est-sud-est di Lumjung in Nepal che ha causato più di 8.000 morti. Si tratta dell’evento sismico più violento che abbia colpito quest’area dopo il 1934, quando un terremoto di magnitudo che 8.0 provocò la morte di circa 10.600 persone. Dopo 3 anni dal disastro, la produzione dei mattoni, per la ricostruzione del Paese è ai massimi livelli. Questa necessità di ricostruzione ha comportato un peggioramento dello sfruttamento del lavoro dei minori e dell’inquinamento atmosferico della valle di Katmandu. Attraverso il reportage Sweat and dust” si racconta il dramma di questa tipologia del lavoro, dove migliaia di famiglie Nepalesi risiedono intorno le fornaci per realizzare mattoni e per il trasporto di quest’ultimi nelle aree più remote del Paese. Attualmente nella valle di Katmandu sono presenti circa 1.000 fornaci attive da Novembre a Maggio, periodo della stagione secca. Ed è stato calcolato che le fornaci rilasciano circa 837.000 tonnellate di diossina.  La produzione dei mattoni viene ancora realizzata a mano. Intere famiglie, dopo avere mescolato l’argilla con l’acqua ed aver ottenuto la consistenza adeguata, utilizzano stampi in legno per dare forma ai mattoni. Quando i mattoni sono asciutti, vengono trasportati prima nei forni per la cottura e poi, una volta cotti, vengono caricati sui camion che li distribuiscono alle imprese edili. Ogni mattone può pesare fino a 2 kg, ed un minore arriva a trasportare, sulle spalle o sulla testa, circa 2.500 mattoni al giorno, per un totale di 12 ore lavorative ed un guadagno di 750 rupies ($7). I lavoratori e i loro figli soffrono frequentemente di malattie respiratorie e dolori addominali. Il lavoro nei mattonifici mette a repentaglio la salute e il normale sviluppo dei bambini, esponendoli a infezioni respiratorie, danni alla colonna vertebrale e cancro ai polmoni. Inoltre, il tempo trascorso in queste condizioni segna un’interruzione drammatica del loro percorso scolastico, compromettendo ogni possibilità d’uscita dal circolo drammatico della povertà che caratterizza queste famiglie. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stima che 2.6 milioni di bambini Nepalesi (40% della popolazione) tra i 5 ed i 14 svolgono un’attività lavorativa, di questi circa 60.000 lavorano nei forni per la cottura dei mattoni. “Sweat and dust” è un fotoreportage di Luca Catalano Gonzaga finanziato dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti. (Testo a cura di Muriel de Meo).

Life in the furnace

Nella valle di Katmandu, le fabbriche di mattoni, sorgono in zone rurali e isolate, lontane dalle reti stradali e quindi anche da servizi, botteghe, negozi, scuole o ospedali. Dal di fuori, i mattonifici sembrano come degli enormi campi per rifugiati, con delle piccole e temporanee capanne (chiamate Jhyaulis), fatte di mattoni coperti con lastre di lamiera. I muri traforati di queste capanne non sono sufficienti a proteggere i lavoratori dal vento freddo della valle di Katmandu, tipico dei mesi invernali. Questo è infatti un lavoro che si svolge per circa 6 mesi l’anno, solitamente nella stagione secca che va da novembre a maggio, quando la terra è secca e quindi adatta a produrre i mattoni. La vita in queste condizioni si trasforma in una continua lotta per la sopravvivenza. I rischi per la salute sono enormi: la forte concentrazione di polvere presente nell’area e i fumi tossici rilasciati dai forni di mattoni rappresentano spesso una combinazione letale. Infatti, le aree intorno ai mattonifici sono solitamente altamente inquinate. Si stima che, ogni anno, ben 850,600 tonnellate di diossina vengono rilasciate dai forni di mattoni nella sola Valle di Katmandu, mentre il conseguente inquinamento delle aree circostanti è sufficiente a provocare la morte prematura di 1.600 persone all’anno, solo a Katmandu. (Testo a cura di Muriel de Meo).

South Sudan: strength in fragility

Una frattura nella frattura che affonda le radici nella colonizzazione britannica in Africa centrale. E’ la storia del Sud Sudan che dopo aver proclamato l’indipendenza nel 2011 si trova oggi a dover gestire un conflitto armato iniziato il 15 dicembre del 2013 che col passare degli anni non ha smesso di aggravarsi. I dati parlano di una situazione fuori controllo in uno Stato letteralmente fallito:1 milione 792mila rifugiati oltre frontiera, 2 milioni di sfollati nel Paese, oltre 5 milioni di persone vittime della crisi alimentare su una popolazione che ne conta 12 milioni, circa 50mila civili e militari morti negli scontri. In questa palude sembra impossibile uscirne perché nessuna delle fazioni vuole scendere a compromessi con l’avversario. Così la rivalità etnica e politica tra l’attuale presidente Salva Kiir Mayardit (appartenente ai dinka) e il suo ex vice Riek Machar (di etnia nuer) – che non ne riconosce la legittimità – tiene in ostaggio un intero popolo condannandolo alla miseria. Il fotografo Luca Catalano Gonzaga, pone l’attenzione sull’attuale crisi che pervade il Sud Sudan, con il progetto South Sudan: strength in fragility, dove si concentra sulle persone ancora più deboli, ovvero coloro che hanno disabilità fisiche e psichiche e che non possono lasciare i loro villaggi, situati in aree problematiche. In queste aree opera l’organizzazione Light for the World, nel quadro della risposta umanitaria finanziata dalla Fondazione Nando and Elsa Peretti. (Testo di Sebastiano Caputo).

Under the weight of bricks

Tra le emergenze che l’Afghanistan vive nel tentativo di creare uno Stato non solo unitario, ma anche solidale e di diritto, c’è la condizione delle sue donne e dei suoi figli. Una condizione generalmente sfavorevole, che si intreccia nell’ambito lavorativo con ampie aree di sfruttamento. Un nuovo rapporto sul lavoro coatto nelle fabbriche di mattoni in Afghanistan diffuso dall‘Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) ha messo in luce la drammatica realtà dei minori, che di questa manovalanza costituiscono la maggioranza: ben il 56 per cento dei lavoratori. In Afghanistan gran parte delle famiglie che lavorano nelle fornaci hanno conosciuto la servitù per debiti. Intere famiglie con competenze limitate e senza accesso al credito, trovano lavoro solo nelle fornaci, dove viene loro garantito un anticipo sul salario nonché l’alloggio e l’acqua come pagamento in natura. In media le famiglie sono composte da 8,8 persone, e l’83 per cento dei capifamiglia non ha ricevuto nessuna istruzione. In questi luoghi, bambini e adulti lavorano ininterrottamente per oltre 70 ore a settimana. I lavoratori sono esposti al sole, al calore e alla polvere. La composizione della manodopera delle fornaci afghane è molto diversa rispetto agli altri paesi della regione. In Nepal, India, Bangladesh e Pakistan, la forza lavoro comprende uomini, donne e minori dei due sessi. In Afghanistan, anche se le famiglie si trovano in condizioni di estrema povertà, donne e ragazze lavorano fuori casa solo in caso di effettiva necessità. L’esclusione delle donne dalla forza lavoro in Afghanistan si traduce in un maggior ricorso al lavoro dei bambini, in quanto solo un genitore è economicamente attivo. “Brick by brick è un fotoreportage di Luca Catalano Gonzaga finanziato dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti(text by Luca Catalano Gonzaga).