Il futuro dell’Ucraina si gioca sul binario numero 5 della stazione di Lviv, la città al confine con la Polonia e la città ucraina più europea (725.000 abitanti). La capitale è il simbolo della resistenza contro l’invasore russo; il binario di Lviv, da cui partono i treni per la Polonia, è il percorso che porta in salvo centinaia di migliaia di donne e bambini, famiglie di combattenti. Convogli provenienti da tutto il paese arrivano senza sosta alla magnifica stazione in stile Art Nouveau inaugurata nel 1904 sotto il regno dell’imperatore Francisco José I. La monumentalità dell’edificio sminuisce la catastrofe umanitaria che ospita in questi giorni. Più della metà dei 2,5 milioni di rifugiati ucraini, secondo le Nazioni Unite, sono entrati in Polonia, la stragrande maggioranza da Leopoli. Ogni giorno che passa, gli sfollati del fronte arrivano in numero sempre maggiore. Sulle piattaforme, invece, prevale una calma sorprendente, mentre all’esterno si affollano migliaia di persone. Nel corso dei giorni, l’ordine e la distribuzione della folla è migliorata. Le autorità sono riuscite a mantenere libere le piattaforme. Nelle code non ci sono quasi discussioni nonostante l’attesa possa superare le 24 ore. Sulle pareti della stazione ci sono tanti annunci e istruzioni per chi arriva a Leopoli: un avviso ricorda agli uomini che devono registrarsi presso gli uffici dell’esercito e che non possono lasciare l’Ucraina. Una nota riassume le due opzioni (in autobus o in treno) che le donne hanno per proseguire fino al confine con la Polonia, a 70 chilometri di distanza. Prendere il treno ha un vantaggio rispetto all’autobus: può far sbarcare i profughi direttamente alla stazione polacca di Przemysl. Viaggiare in autobus significa trascorrere almeno un giorno all’interno del veicolo e camminare per non meno di due ore fino alla linea al posto di confine di Shehyni, di fronte alla Polonia. (Testo di Luca Catalano Gonzaga).
Categoria: storie
Our land our nature
In Tanzania, nel distretto di Ngorongoro, le comunità Masai affrontano una costante minaccia di sfratto dalla loro terra ancestrale a favore dell’ampliamento delle aree protette, dedicate al turismo dei safari e a quello super- elitario della caccia grossa. L’immigrazione forzata non è una novità per i Masai. Durante gli anni ’50, gli amministratori britannici che avevano il potere in quest’area africana costrinsero la tribù a un esilio dal Parco Serengeti a Ngorongoro per far sì che flora e fauna potessero crescere liberamente, dando luogo al più famoso Parco Nazionale. Ora la storia potrebbe ripetersi: in questo caso sembra che la volontà di aumentare gli introiti del turismo sia la motivazione dei politici locali. Il Governo della Tanzania ha proposto un piano di riqualificazione delle zone di Ngorongoro che, secondo alcuni attivisti, potrebbe portare allo sfollamento di 80mila Masai. Sebbene il loro stile di vita tradizionale fosse basato sull’allevamento del bestiame, oggi i Masai hanno bisogno di praticare anche l’agricoltura. Conducono il bestiame da un pascolo all’altro, per dare all’erba la possibilità di ricrescere; un tempo, questi spostamenti erano garantiti da un sistema di proprietà collettiva della terra, che dava a tutti la possibilità di condividere l’accesso all’acqua ed ai pascoli. Adesso, stanno perdendo anche l’unica alternativa consentita, l’allevamento, poiché si fa sempre più scarso il terreno dedicato al pascolo mentre vengono raggruppate le comunità, che demograficamente stanno crescendo, in aree sempre più circoscritte. I Masai si ritrovano così confinati nelle zone più aride e sterili del paese. Le interferenze delle autorità mirano a cambiare il loro sistema di accesso comunitario alla terra con la scusa di dare più spazio alla protezione della fauna, ma in realtà l’obiettivo è quello di intensificare il turismo d’élite. Oggi i nativi sono ridotti alla miseria. Capanne fatte a mano sono l’unico rifugio di questo antico e fiero popolo che per tradizione segue una vita a sé, con le proprie regole, e che ha un forte legame con la propria terra ancestrale. Una questione ecologica è diventata quindi una questione umanitaria. È giusto che sempre più turisti visitino i Parchi Nazionali, mentre i nativi sono spinti ai margini in condizioni di estrema povertà? (testo di Luca Catalano Gonzaga).
Life in the Boma
I Maasai vivono in kraal di famiglie allargate, che oggi sono comunemente conosciute come boma. Questo è un grande recinto di spine circolare contenente capanne e recinzioni per animali, al fine di proteggere la famiglia e il bestiame dai predatori. Ogni moglie ha la sua capanna dove vive con i suoi figli. Un figlio che crea la sua famiglia sceglie un’estremità del boma per costruisce la sua abitazione. La capanna Maasai è ovale con tetto ricurvo. Viene costruito dalle donne con bastoni, erba e sterco misto a cenere ed è loro compito mantenere le strutture spalmandole di tanto in tanto con sterco di vacca per evitare infiltrazioni. L’interno è molto buio per tenere lontane le mosche che girano attorno alle capre e alle mandrie di mucche. Tradizionalmente, i Maasai sono poligami. Più grande è la mandria, più persone saranno necessarie per prendersi cura del bestiame. Una donna Maasai ha una catena di doveri da svolgere all’interno della famiglia: deve costruire e riparare le capanne, andare a prendere l’acqua, raccogliere la legna, mungere le mucche e prendersi cura dei bambini. Quando ci sono due o tre mogli in casa, il lavoro è condiviso. Quindi, per i Maasai, la poligamia è più un modo di sopravvivere che un segno di prestigio. Le giovani ragazze della famiglia aiutano le madri nelle faccende domestiche e talvolta aiutano anche i fratelli a pascolare i vitelli vicino al boma. Condurre il bestiame ai pascoli è in gran parte opera dei ragazzi più giovani che non hanno ancora subito il rito di passaggio della circoncisione. Quando il bestiame viene allontanato ulteriormente, i guerrieri più giovani possono unirsi a loro. (testo di Luca Catalano Gonzaga).
Scatti fotografici in Cambodia-Laos
Sono lieto di condividere alcune immagini del mio archivio in pellicola bianco e nero, prima della mia decisione di dedicarmi interamente alla fotografia documentaria come stile di vita.
La Sanità Pubblica al tempo del Covid-19 “Fase due”
Sebbene la pandemia di Covid-19 sia ancora in corso, volendo alzare lo sguardo al futuro prossimo, che cosa cambierà nella gestione della nostra salute? Quale sarà il protocollo sanitario da seguire fino a quando non avremo un vaccino o una cura risolutiva?
I cittadini e gli operatori sanitari della maggior parte dei Paesi industrializzati stanno affrontando la più grave pandemia del secolo. La crisi innescata da Coronavirus sta mettendo a dura prova, oltre che l’efficacia e l’accessibilità alla sanità pubblica, la sua resilienza. Ovvero, la capacità del sistema di adattarsi efficacemente ad uno shock improvviso o a un cambiamento repentino. Caratteristica indispensabile per sostenere un’emergenza che potrebbe prolungarsi nel tempo e ripetersi nel nostro futuro.
Da queste riflessioni nasce il progetto fotografico “La Sanità Pubblica al tempo del Coronavirus” dove Witness image in collaborazione con l’Ospedale San Camillo Forlanini, vuole raccontare attraverso un reportage fotografico, come sono cambiate le regole di comportamento e di protezione nell’accesso alle strutture sanitarie, sottolineando l’importanza di costruire modelli sanitari capaci di adattarsi alla crisi.
La fotografia rappresenta un linguaggio universale, il suo racconto, spesso più delle parole, può coinvolgere ad un livello profondo l’opinione pubblica, restituisce a chi la guarda l’anima più autentica della straordinaria professionalità e umanità cui gli operatori sanitari sono chiamati quotidianamente nel rapporto con i pazienti, reso ancora più complesso da norme che ne delineano necessariamente il distanziamento.
Attraverso l’occhio e la sensibilità del fotografo Luca Catalano Gonzaga, si vuole narrare il cambiamento avvenuto nei vari reparti dell’Ospedale, attraverso i suoi protagonisti: i pazienti, i medici, gli infermieri, gli ausiliari.
Under the weight of bricks
Il Bangladesh è situato sui delta di diversi grandi fiumi che passano nel Golfo del Bengala. La posizione del paese su questa pianura alluvionale comporta una scarsa disponibilità di roccia naturale, necessaria per la realizzazione di mattoni, materiale principale per la costruzione di edifici. Per soddisfare tale fabbisogno, sono presenti nel Paese, circa 5.000 forni per mattoni gestiti da privati, di cui 1.000 intorno alla capitale Dhaka. Uomini e donne emigrano nelle periferie delle città e qui lavorano come 150 anni fa: raccolgono la terra dalle aree umide, la mescolano con l’acqua, modellano il mattone con le mani e lo fanno seccare al sole, per poi farlo “cuocere” nei forni tradizionali. L’attività di cottura dei mattoni, determina gravi conseguenze sulla salute dei lavoratori e sull’ambiente circostante. Si stima che ogni anno le fornaci del Bangladesh espellono nell’aria più di 9,8 milioni di tonnellate di gas serra. Il fumo delle ciminiere nuoce a occhi, polmoni e gole, mettendo a rischio la salute dei lavoratori e dei villaggi circostanti. Inoltre, tra il 25% della produzione di legname nazionale viene usato come combustibile per le fornaci, provocando una massiccia deforestazione. Nella trappola dei mattoni non rimangono invischiati solo gli adulti, ma anche i bambini. Lavorano per ore, guadagnando tanto quanto gli adulti, perché il prezzo lo fa il numero di mattoni che si riesce a trasportare ogni giorno. “Under the weight of bricks” è un fotoreportage di Luca Catalano Gonzaga finanziato dalla Fondazione Nando ed Elsa Peretti. (testo di Luca Catalano Gonzaga).
When the Senegal Sea runs dry
Si chiama “Ocean grabbing”, cioè il sovra-sfruttamento dei mari. Nei fatti, minaccia lo stile di vita, l’identità culturale e l’accesso alle risorse delle comunità che vivono di pesca artigianale.
Questa pratica, infatti, concentra la maggior parte dei diritti di pesca nelle mani di poche compagnie, privando quasi tutti i pescatori di piccola scala del diritto di utilizzare la risorsa primaria per la loro sussistenza e mettendo a repentaglio gli stock ittici e la qualità dell’ambiente marino lungo le coste dell’Africa Occidentale.
La minaccia emergente è rappresentata dal fatto che il pesce da cui dipendono le popolazioni costiere africane viene sempre più utilizzato non per l’alimentazione umana, ma per essere trasformato in farine e oli di pesce per l’industria mangimistica estera.
Sulle spiagge del Senegal, le donne guardano le piroghe che scaricano il pescato e sono tutt’altro che felici. Le reti sono quasi vuote e si aspettano di peggio quando apriranno nuove fabbriche straniere per convertire il pesce in farina.
La situazione si è notevolmente deteriorata da quando le fabbriche cinesi, coreane e russe hanno iniziato a sorgere lungo la costa, producendo farina per l’allevamento ittico e l’allevamento del bestiame in Europa e in Asia. Negli ultimi tre anni, 11 impianti sono stati costruiti vicino alle spiagge dove i pescatori locali sbarcano il loro pescato, tra Kayar, a nord della capitale e Joal, circa un terzo, cioè, della costa del paese.
In Senegal lavorano con la pesca artigianale oltre 600 mila persone e se stimiamo le persone coinvolte anche in modo indiretto, come le donne che lavorano il pesce e lo vendono ai mercati, arriviamo addirittura a 825 mila.
L’ impatto socio-economico è notevole, non solo viene danneggiata un’economia locale fortissima, ma viene anche minata la stessa sicurezza alimentare del luogo se si considera che il pesce rappresenta circa il 70% delle proteine animali consumate dall’intera popolazione.
I pesci vengono catturati da coloratissime piroghe di legno che solcano le impetuose onde dell’Atlantico. Una volta riempita la barca di pescato, le piroghe tornano a riva. Le imbarcazioni ormeggiano alla fonda, poco lontane dalle rive della spiaggia che brulica di persone. Inizia così una lenta processione di uomini che, indossando una cerata, si immergono nelle acque, arrivano fino alle sponde delle barche dove ricevono una cassa di pesce e poi, tenendola sulla testa, ritornano a riva per portare il pesce a destinazione.
Alcune casse vengono scaricate direttamente sulla sabbia mentre altre sono portate al mercato, qualche decina di metri più indietro.
I diversi cumuli di pesce sono smistati in base alla barca di provenienza e al tipo; i compratori si affollano attorno ad ogni pigna, scelgono il pesce da acquistare e altri uomini si occupano del carico sui camion. Le ceste di pescato selezionato, coperte di ghiaccio e caricate sui camion frigoriferi, iniziano così il loro viaggio verso le fabbriche di lavorazione per la trasformazione in farina di pesce destinata ai mercati Internazionali di mangime.
Protein drying
Il pesce affumicato è una fonte vitale di cibo e reddito per molte persone che vivono nelle comunità costiere del Senegal e in altri paesi dell’Africa occidentale.
Secondo i dati forniti dalla Banca mondiale, nel settore sono impiegate circa 600mila persone – quasi il 20 per cento della forza lavoro – e il pesce copre il 75 per cento del consumo proteico del paese.
Joal-Fadiouth è uno dei porti di pesca più importanti del Senegal e il più grande centro di lavorazione artigianale del pescato in tutta l’Africa occidentale.
Prima di essere esportato nei paesi vicini, il pesce destinato al mercato africano (Burkina Faso, Mali, Costa d’Avorio e Guinea) viene essiccato su centinaia di scaffali di legno. Ogni giorno uomini, donne e bambini lavorano per affumicare il pesce, rimuovere le code, le pinne, la testa; i prodotti finiti, lavorati a mano, vengono poi stesi su dei tavoli bassi per l’asciugatura finale. I commercianti di sale e gli agricoltori consegnano i carri di paglia usati nel processo di affumicatura. Tutti partecipano a quest’attività così preziosa per la sopravvivenza della popolazione del luogo.
Sanou Diouf, come migliaia di altre donne della città, lavora a tempo pieno salando e affumicando sgombri, acciughe, sardine.
Quando, nel 2010, si è trasferita a Joal, a sud della capitale Dakar, riusciva a guadagnare fino a diecimila franchi cfa (15 euro) al giorno. Oggi, con il crollo del mercato della pesca, è fortunata se riesce ad arrivare a tremila franchi cfa.
“La maggior parte delle volte – racconta – devo lottare per riuscire a far mangiare i miei sei figli. Porto a casa un po’ del pesce affumicato perché, spesso, non abbiamo nient’altro”. Le risorse di pesce dell’Africa occidentale, un tempo le più ricche al mondo, si stanno esaurendo a causa dei pescherecci industriali che setacciano gli oceani per soddisfare il bisogno dei mercati europei e asiatici, minacciando così il sostentamento e la sicurezza alimentare del Senegal.
Fishing in dangerous waters
In Senegal, i pesci stanno diventando scarsi, poiché la pesca su scala industriale ha progressivamente prosciugato gli stock ittici del paese. Non si incontrano più pescatori che utilizzano le reti a poche miglia dalla riva, inutilmente vuote. Le continue incursioni illegali dei pescherecci asiatici, europei e africani, nelle acque riservate ai locali, hanno costretto i pescatori a cercare un’altra strada che garantisca loro la sopravvivenza, una strada illegale e altamente pericolosa: la pesca subacquea. Per trovare il pesce, ormai, è necessario scendere ad una profondità che va dai 20 ai 50 metri, che dunque di può raggiungere solo con l’ausilio di bombole per immersione. Naturalmente il governo senegalese vieta, ufficialmente, la pesca subacquea, sia di giorno che di notte, ma di fatto poi lascia correre, evitando ogni controllo, nella consapevolezza che questa rappresenta l’unica possibilità di sopravvivenza per interi villaggi. E nonostante questo, i pescatori, pur esponendo la loro vita ad un rischio continuo, hanno registrato una consistente diminuzione del loro pescato: dai 60/70 kg al giorno nel 2010 ai 25/30 kg di oggi.
Il rischio è dato dal fatto che sono costretti ad immergersi almeno 2/3 volte al giorno, per un totale di 5/6 ore. E naturalmente non esiste alcun controllo sulla strumentazione, né tantomeno medico-sanitario, per non parlare della ovvia impossibilità di raggiungere una camera iperbarica in caso di embolia. Dunque ogni anno, si registrano un numero impressionante di decessi e di casi di invalidità permanente.
Qualche dato economico: un subacqueo che esce ogni giorno con la propria piroga sostiene un costo di circa 12 euro, tra gasolio e ossigeno per le bombole, quindi deve pescare almeno 10 kg di pesce per rientrare almeno delle spese. Considerando che il pescato medio giornaliero è di circa 20 kg, il guadagno quotidiano si aggira intorno a 10 euro, somma insufficiente al mantenimento dell’intera famiglia.
Per fortuna, esiste una grande, spontanea, fortissima rete sociale tra le varie comunità di pescatori, che si aiutano tra loro cedendo parte del pescato agli anziani, o alle persone disabili a causa degli incidenti da immersione.
Sorprendente è il caso di uno di loro, Ndiattè Gueyeì. Ndiatte’ ha 35 anni, una moglie e 2 figli, e vive vicino a Dakar, nel villaggio lungo la spiaggia di Ngor.
Sorprendente perché Ndiatte’ e’ stato per diversi anni campione di canottaggio del Senegal, ha partecipato con ottimi risultati a diversi campionati mondiali come quelli in Germania nel 2012, o nel suo Paese, a S.Louis, nel 2018, eppure continua a vivere in estrema povertà. Nessun sostegno dal governo, nessuna agevolazione perché possa allenarsi e prepararsi per indossare la maglia del Senegal nelle gare olimpiche. Ndatte’ vive, come tutti gli altri, in una condizione di estrema povertà, in una casa che è costituita da una sola stanza, con tutta la sua famiglia, ed è tuttora costretto ad immergersi due volte al giorno se vuole sopravvivere, nonostante ad oggi abbia ricevuto già 26 medaglie, che orgogliosamente custodisce nella casa della madre.
A giant battery on Mekong
Il Mekong: il fiume più lungo del Sudest asiatico, fonte di sostentamento per 60 milioni di persone. Fornisce pesce e acqua alla popolazione che vive entro il suo bacino idrografico, ed è il pilastro su cui si fonda lo sviluppo economico della regione. Si snoda per 4.800 km attraversando ecosistemi unici e ricchissimi di biodiversità, in sei paesi diversi. I primi di novembre 2019 la centrale idroelettrica di Xayaburi, nel nord del Laos, è entrata in funzione: costata diversi miliardi di dollari e costruita nell’arco di nove anni, è stata finanziata in buona parte dalla Thailandia. Sfrutta l’acqua del fiume Mekong, con la sua potenza di 1,3 gigawatt, produrrà energia elettrica che sarà acquistata al 96 per cento dalla Electricity Generating Authority of Thailand. Non appena è entrata in funzione, la diga della centrale di Xayaburi ha fatto abbassare di un metro e mezzo i livelli del Mekong, portandoli ai livelli minimi da un secolo, ma il Laos progetta di costruire nei prossimi anni circa 140 dighe, sul Mekong e sui suoi affluenti, per metà finanziate dalla Cina, con l’ambizione di diventare “la batteria dell’Asia”. Esperti, ambientalisti e rappresentanti delle comunità locali avvertono da anni che lo sfruttamento del Mekong sta provocando e provocherà enormi danni alle decine di milioni di pescatori che vivono nel bacino del fiume, e che per millenni hanno basato la propria sopravvivenza su risorse ittiche, il cui futuro sembra ora più che mai a rischio. Dalla Cina al Vietnam, le dighe idroelettriche stanno iniziando a disturbare il flusso naturale del Mekong e dei suoi affluenti, trattenendo e rilasciando acqua per guidare enormi turbine. In nessun luogo questo è più pronunciato che nello stato comunista del Laos, dove 46 dighe operano lungo i fiumi e i flussi che si alimentano nel Mekong, con una capacità di generazione di energia combinata di circa 6.500 megawatt. Nelle sue acque vengono riversati quotidianamente agenti inquinanti, con conseguenze sui pesci e i crostacei che vengono pescati a ritmi di milioni di tonnellate all’anno, ed esportati in tutto il mondo per un giro di affari stimato in 17 miliardi di dollari. Il riscaldamento globale poi mette a rischio l’esistenza dei ghiacciai tibetani dai quali nasce il Mekong, così come i cambiamenti nella regolarità e nell’intensità dei monsoni che lo alimentano lungo il suo percorso. Ma è stato soprattutto lo sfruttamento del suo enorme potenziale idroelettrico a rappresentare un problema. I problemi dello sfruttamento idroelettrico del Mekong non sono soltanto a medio o lungo termine. L’anno scorso, il crollo di una diga in Laos provocò un’alluvione che uccise decine di persone e distrusse migliaia di case: l’incidente fu provocato da un errore umano, concluse il governo del Laos, che però non individuò mai i colpevoli. Migliaia di persone nel Laos, sono state costrette a spostarsi per far posto alle centrali e agli annessi bacini d’acqua, che hanno sommerso interi villaggi abitati per secoli dalle comunità locali che vivevano lungo il fiume e che in molti casi hanno dovuto cambiare radicalmente stile di vita, non potendo più contare sull’acqua del Mekong. (Testo a cura di Luca Catalano Gonzaga).